Che cosa hanno in comune un bambino timido, una donna incinta e un disoccupato? Sono potenziali e ricercati pazienti di un mercato che è l’unico che prospera, quello della salute. Che mette sul banco nuove copie dei vecchi farmaci al triplo del prezzo e gonfia l’idea di malattia in modo da comprendervi tanti e fisiologici aspetti della vita. E così nessuno mai può pensare di stare bene.
Così nel discorso di addio, il direttore del colosso farmaceutico Merck: “Sogniamo di produrre farmaci per le persone sane”. Trent’anni dopo, la missione si può dire compiuta e il business che amplifica il concetto di malattia per alimentare il mercato della salute è l’unico che resiste, e anzi prospera, in questi tempi di crisi economica. Un business che si nutre soprattutto di marketing. Nell’industria farmaceutica gli investimenti in questa direzione sono due volte più elevati di quelli destinati alla ricerca. Solo il 2,4 per cento dei farmaci immessi sul mercato dal 1981 al 2008 rappresentano un vero importante progresso terapeutico, mentre l’80 per cento non sono che copie dell’esistente, a eccezione del prezzo , che di regola è triplicato. Invece del prodotto, basta promuovere la malattia. Si chiama disease mongering : consiste nel gonfiare l’importanza di una malattia o, se occorre, la si inventa di sana pianta. In questo modo a trarre vantaggio da un approccio di questo tipo non è solo la singola azienda, né solo quelle che producono farmaci per una determinata malattia, ma tutta una filiera, che va dai laboratori di analisi alle società scientifiche dei medici specialisti in quel ramo, dalle farmacie ai produttori di kit diagnostici o attrezzature varie.
La prima operazione di marketing è la “sensibilizzazione” che dietro alla facciata nasconde interessi economici. Ci sono le Giornate, le Settimane, i Mesi della prevenzione, che ormai costellano tutto il calendario, martellano dai media, invadono le piazze. Si offre gratuitamente una visita, un esame, e da lì si innesca una catena di accertamenti e cure, da cui tutti ne traggono vantaggio, tranne, nella maggior parte dei casi, il malato stesso. “Diagnosi precoce” e “prevenzione” sono due parole affascinanti. Chi però promuove queste campagne spesso non dice che in molti casi questi accertamenti diagnostici non sono abbastanza precisi: al di fuori dei programmi di screening previsti a livello nazionale, di cui ben soppesati svantaggi e benefici, tutti questi esami in più rischiano di indurre una falsa rassicurazione che farà trascurare sintomi preoccupanti, o viceversa di creare un allarme cui possono seguire accertanti o terapie inutili, con tutto il loro carico di effetti collaterali indesiderati. Prima di andare a caccia di una malattia, bisogna essere ben certi di poterla curare in maniera efficace. Le campagne per la diagnosi precoce dell’Alzheimer per esempio hanno questo limite: privano una persona di mesi , anni di vita serena, senza offrirle nessuna speranza di arrestare la demenza che incombe.
Lo scopo dichiarato del marketing è di far diventare tutti i consumatori pazienti “presintomatici”. D’altra parte è innegabile che tutti siamo “presintomatici”, perché prima o poi svilupperemo qualche sintomo. Chi può dire di vivere “non solo in assenza di malattia ma in uno stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale”, come recita la definizione di salute stabilita dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS)? Una definizione utopistica, che sicuramente ha contribuito alla cosiddetta “medicalizzazione” della nostra società.
In Europa, per esempio, quattro persone su dieci sono etichettate come portatrici di un disturbo mentale. La depressione è una condizione seria che deve essere curata secondo il farmacologo. Ciò non significa però prescrivere ogni volta che una persona vive un momento difficile ed è comprensibilmente giù di morale a causa di difficoltà finanziarie, di un grave lutto o della perdita del lavoro. Negli Stati Uniti, anche per causa di queste situazioni, il consumo di antidepressivi è quadruplicato negli ultimi dieci anni.
Il concetto di ciò che è normale o patologico riguarda anche i bambini. Non si considera normale che a quattro anni i bambini di oggi , ingabbiati in ritmi di vita inadatti a loro, possano così vivaci da essere ritenuti incontenibili, svogliati o incapaci di portare a termine un compito assegnato: secondo la American Academy of Pediatry già a questa età si può diagnosticare la sindrome da iperattività e deficit di attenzione e si dovrebbe immetterli subito in riga con il metilfenidato o altri derivati dalle anfetamine.
Se il confine tra sani e malati è labile in campo psichiatrico, uscendo da questo contesto le cose non vanno meglio: negli Stati Uniti uno su quattro, cioè 55 milioni di persone, prende ogni giorno una pillola per la pressione. L’agenzia della regolazione dei farmaci ha affermato che le statine- il best seller dell’industria farmaceutica mondiale- usate a fiumi per abbassare il colesterolo e prevenire l’infarto, dovrebbero assumerle a chi il colesterolo alto non ce l’ha, ma per un alto grado di infiammazione nel sangue oppure per avere un altro fattore di rischio (il fumo, l’obesità o pressione alta) potrebbe avere più probabilità degli altri di andare incontro a malattie cardiache.
La medicalizzazione non risparmia nessuna fase della vita, dalla nascita alla morte. Prendiamo per esempio il parto. L’Italia ha il più alto tasso di tagli cesari d’Europa, con quasi quattro bambini su dieci che vedono la luce in sala operatoria.
Neppure l’invecchiamento è da considerare fisiologico: anzi è al primo posto nell’elenco delle “non malattie” ma trattate come se lo fossero. Così i normali effetti della menopausa come la perdita di capelli, il calo di potenza sessuale nell’uomo o di desiderio nella donna, fisiologico con l’età, sono promossi al rango di patologie per le quali sono già pronti trattamenti farmacologici ad hoc.
Dovendo scegliere una clientela, meglio puntare su chi sta bene. Basta inventare nuove malattie, fino a poco tempo prima inesistenti, per dare un futuro a farmaci che altrimenti resterebbero senza destinazione; oppure ingigantire disturbi banali o normali circostanze di vita, nell’idea che tutto si possa curare.
La fibromialgia è una “nuova” malattia che sembra fatta apposta allo scopo di vendere analgesici. Questa idea di curare i sani e solo l’ultimo atto di una strategia che inizialmente è partita allargando la platea dei malati. Non è un caso che i valori-soglia considerati un tempo normali per la glicemia, colesterolo o la pressione arteriosa siano stati progressivamente abbassati: per ognuno di questi aggiustamenti, è cresciuto a dismisura il numero di persone cui prescrivere medicinali. Eppure per tutte queste condizioni ribattezzate prediabete, preipertensione, sindrome metabolica, e così via, il miglior rimedio sarebbe una vita più sana, con un’alimentazione più controllata e una maggior attività fisica. Ma in questo caso a guadagnarci sarebbe solo la salute.